H.Y.S BLoG

2009년 2월 23일 월요일

실존 인물 ANNA BOLENA

앤 볼린
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앤 볼린의 사후에 그려진 초상화
앤 볼린(Anne Boleyn, 1504년? - 1536년 5월 19일)은 헨리 8세의 두 번째 아내이며 엘리자베스 1세의 어머니이다. 헨리 8세는 앤 볼린과 결혼하려고 민족주의 성격의 종교개혁을 일으켜 잉글랜드 교회로마 가톨릭교회와 결별시켰다.
딸 엘리자베스를 낳은 후, 불륜과 이단, 모반 등의 혐의를 받아 1536년 5월 19일 사형당했다. 그로부터 11일 후에 헨리 8세는 앤 볼린의 시녀였던 제인 시무어와 결혼하였다.

[편집] 생애
앤 볼린의 아버지는 외교관 토머스 볼린, 어머니는 명문집안인 하워드 가문의 엘리자베스였다. 생년월일은 명확하지 않으나 초여름에 노포크 지방에서 태어난 것으로 추정된다. 총명하고 재치있는 성격으로 어렸을 때부터 프랑스 궁정에서 수업을 받으며 예법을 닦았고 프랑스어라틴어에 능숙했다. 프랑스의 루이 12세의 왕비 메리 튜더의 시녀가 되었다가 루이 12세가 승하하고 프랑수아 1세가 즉위하자 새 왕비 클로드의 시녀가 되었다. 오랜 프랑스 생활로 프랑스 문화에 동화된 앤 볼린은 이후로도 프랑스식 옷차림, 문학, 음악, 그리고 종교개혁에 깊은 관심을 보인다.
1521년경 앤 볼린은 오몬드 공작과의 혼담을 위해 잉글랜드로 돌아와 헨리 8세의 왕비 아라곤의 캐서린의 시녀가 된다. 지참금 문제로 오몬드 공작과의 혼담이 무산되자 앤 볼린은 노섬브리아 공작의 후계자 헨리 퍼시와 사랑에 빠져 결혼을 약속한다. 그러나 두 사람의 신분 차이와 토머스 울지 추기경의 반대로 퍼시와의 결혼은 무산되었다. 이에 낙심한 헨리 퍼시는 궁정을 떠났다.
전기작가 안토니아 프레이저에 따르면 헨리 8세가 앤 볼린을 의식하기 시작한 것은 1526년경이라고 한다. 앤 볼린은 전통적인 금발에 푸른 눈을 가진 미인은 아니었으나 흑발에 까만 눈의 매력적인 여인이었다. 당시 유럽 유행의 최첨단을 걸었던 프랑스 궁정에서 받은 교육 덕분에 세련된 기품이 배어 있었으며 화술도 뛰어났다. 이미 앤의 누이(언니인지 동생인지는 정확하지 않음) 메리 볼린을 정부로 두었던 전력이 있는 헨리 8세는 앤마저 정부로 삼으려 했다. 그러나 앤은 왕의 유혹을 거절하며 정식 결혼을 요구했다. 왕비 캐서린에게서 아들을 얻지 못했던 헨리 8세는 젊은 앤 볼린이 왕자를 낳아 줄 것이라는 희망을 품게 된다.
1527년 헨리 8세는 캐서린과의 이혼을 시도하였다. 캐서린의 거센 저항과 로마 교황청의 끈질긴 반대에 부딪히자 헨리 8세는 결국 종교개혁을 일으켜 잉글랜드 교회를 로마 가톨릭에서 분리시키고 나서 스스로 교회의 우두머리가 되었다. 1529년부터 앤은 왕의 총애를 받으며 잉글랜드 궁정에서 출세가도를 걷는다. 하지만, 앤 볼린은 신실한 캐서린 왕비를 왕궁에서 쫓아낸 여자라고 백성의 반감을 샀다.
1532년 헨리 8세는 앤에게 펨브로크 후작부인(Marquess of Pembroke)의 지위를 내려 그녀의 신분을 격상시켰다. 미혼 여성이 직접 작위를 하사받은 것은 전례가 없는 일이었다. 같은 해 크랜머 대주교가 헨리 8세와 캐서린의 결혼을 성경적이지 않은 것이라는 판결을 내리면서 무효로 했다.
1533년 1월경 헨리 8세와 앤 볼린은 정식으로 결혼식을 올린다. 당시 앤은 이미 임신한 상태였다. 같은 해 6월 1일 앤 볼린은 호화로운 예식을 통해 잉글랜드의 왕비로 즉위했다.
1533년 9월 7일 앤은 딸 엘리자베스를 낳았다. 헨리 8세는 실망했으나 곧 아들도 생길 것이라며 희망을 잃지 않았다. 그러나 앤이 수차례에 걸쳐 유산을 반복했고, 부부 사이의 말다툼이 잦아지자 왕의 마음도 앤에게서 멀어졌다. 대신 왕은 앤 볼린의 시녀 제인 시무어에게 눈길을 주기 시작한다. 앤 볼린의 정적 토머스 크롬웰제인 시무어를 지지하면서 왕비와 볼린 가의 추락을 획책했다.
1536년 앤 볼린과 남동생 로시포드 공작 조지 볼린, 그리고 두 사람과 가까운 귀족 청년들 몇몇은 간통과 반역, 근친상간 혐의로 런던 탑에 감금되었다. 심지어 앤 볼린은 마법으로 왕을 유혹했다는 혐의도 받았다. 이를 뒷받침할 증거가 부족했으나 앤 볼린은 두 차례에 걸친 재판에서 모두 유죄 선고를 받았다. 참수형이 확정되자 앤은 자신의 시녀에게 “내 목이 가늘어서 다행이다.”라고 씁쓸한 농담을 건넸다고 한다.
동생 로시포드 공작이 처형당한 지 이틀 후인 5월 19일, 앤 볼린은 런던 탑에서 참수되었다. 사형장에서 앤 볼린은 구경꾼들에게 왕에게는 잘못이 없으니 충성을 다해 섬겨달라고 부탁하는 연설을 남겼다. 앤 볼린의 마지막 말은 “주님께 제 영혼을 맡깁니다.”였다.

TRAMA di "LA BOHEME"

QUADRO PRIMO
In una misera soffitta.Quattro giovani amici - il poeta Rodolfo, il pittore Marcello, il musicista Schaunard ed il filosofo Colline - conducono una gaia vita di bohème. I soldi mancano quasi sempre, spesso si digiuna, ma la gioventù e la spensieratezza aiutano a superare molti ostacoli. La vigilia di Natale vede Rodolfo e Marcello che, infreddoliti ed impossibilitati a lavorare per il gelo che ha invaso la soffitta, sono costretti a bruciare nel caminetto il grosso manoscritto di un dramma di Rodolfo. Rientra Colline, desolato perché ha trovato chiuso il Monte dei Pegni; ma Schaunard, invece, arriva tutto esultante portando del denaro, frutto di un'insolita sua prestazione musicale. I quattro amici decidono di festeggiare la vigilia di Natale con una cena al Quartiere Latino, quando giunge, non gradito, il padrone di casa Benoh a reclamare la pigione dell'ultimo trimestre. Costretto a bere dai turbolenti inquilini, il vecchio si lascia andare ad imprudenti confidenze sulle sue infedeltà coniugali e viene perciò cacciato con alte grida di riprovazione dagli improvvisati moralisti. Marcello, Colline e Schaunard escono; Rodolfo deve attardarsi per finire un articolo di giornale. Mentre il poeta sta scrivendo, fa la sua apparizione Mimì, una dolce e bella grisette che abita in una soffitta dello stesso casamento. Le si è spenta la candela, chiede aiuto a Rodolfo: ma, appena entrata, si sente male e le cadono di mano il candeliere e la chiave di casa. Rodolfo è colpito dal pallore e dalla bellezza della fanciulla. l'aiuta a rimettersi ma, trovata nel buio la chiave, si guarda bene dal restituirla a Mimì: chiamato a gran voce dagli amici impazienti di far baldoria, convince la ragazza ad unirsi a loro. Mimì dolcemente cede. Già innamorati, i due giovani si baciano, poi a braccetto, si avviano giù per la scala.

QUADRO SECONDO
Al Quartiere Latino.Colline ha comprato un vecchio, sdrucito pastrano; anche Schaunard fa acquisti, mentre Rodolfo e Mimì si aggirano fra la folla, felici del loro amore. Il solo Marcello è triste e pensieroso: la bella Musetta, infatti, lo ha abbandonato da qualche tempo per correre dietro a nuovi amori. Rodolfo compra una cuffietta rosa a Mimì e presenta la ragazza agli amici; tutti insieme si siedono ad un tavolo del Caffè Momus ed ordinano una ricca cena. Appare ad un tratto sulla piazza Musetta, elegantemente vestita: le vien dietro Alcindoro, un vecchio pomposo e ridicolo che è il suo amante attuale. Scorto Marcello, la ragazza si siede al tavolo vicino a quello degli amici e dal suo posto lancia frasi maliziose e occhiate eloquenti. Marcello finisce per cedere, una volta ancora, al fascino di Musetta, la quale civetta con lui dopo aver allontanato con un pretesto Alcindoro. Passa la banda militare seguita da una gran folla; i due amici si allontanano unendosi alla baraonda generale. Quando Alcindoro torna al suo tavolino, non trova più Musetta ma, in cambio, i due conti da pagare, e cade sopra una sedia allibito.

QUADRO TERZO
La Barriera d'Enfer.In un cabaret vicino, lavora Marcello, ivi alloggiato insieme con Musetta, che dà lezioni di canto agli ospiti. E' l'alba: gli spazzini si recano al lavoro, passano carrettieri e lattivendole. Mimì, pallida e sofferente, ha un colloquio con Marcello: la vita con Rodolfo è diventata impossibile, le liti e le incomprensioni sono all'ordine del giorno e la fanciulla non sa più che fare. Nascosta dietro agli alberi, Mimì assiste al colloquio tra Rodolfo - appena sopraggiunto - e Marcello: il poeta accusa Mimì di leggerezza e infedeltà ma poi - dietro insistenza di Marcello - confessa la vera ragione del suo modo d'agire. Mimì è gravemente ammalata e la vita nella fredda ed umida soffitta finirebbe per abbreviarle l'esistenza: è necessaria quindi una separazione. Mimì, dal suo nascondiglio, si lascia sfuggire un singhiozzo, e Rodolfo la scopre. Un appassionato colloquio s'intreccia tra i due amanti, che ricordano con struggente nostalgia tutte le gioie del periodo trascorso insieme. Alle tristi e dolorose parole di Mimì e di Rodolfo si uniscono, ad un certo punto, le frasi pungenti e velenose di Musetta e Marcello: il pittore ha scoperto l'amica mentre civettava con un avventore e le fa una violenta scenata di gelosia, alla quale la ragazza reagisce infuriata. Anch'essi si lasceranno: la vita in comune è diventata un inferno. Mentre Mimì e Rodolfo si avviano verso i loro ultimi giorni di felicità, Musetta continua a lanciare atroci insulti contro Marcello, che rientra nel cabaret furibondo.

QUADRO QUARTO
Nella Soffitta.Rodolfo e Marcello, da qualche tempo lontani da Mimì e Musetta, ostentano indifferenza e perfetta felicità, ma in realtà pensano e continuamente rimpiangono le amiche perdute. Giungono Colline e Schaunard che recano una magra cena: pane e un'aringa. Simulando un gaio e ricco festino, i quattro buontemponi inscenano una buffa pantomima, ballando e cantando con umoristico brio. Ma l'animata scena è interrotta dall'arrivo improvviso di Musetta, che accompagna Mimì sofferente e semisvenuta. La ragazza è infatti gravissima: sentendo prossima la fine ha voluto rivedere il suo Rodolfo e, per strada, ha incontrato Musetta che da tempo la cercava. Rodolfo adagia Mimì sul letto e gli amici si prodigano per recarle qualche conforto: Musetta venderà i suoi orecchini, Colline impegnerà il suo vecchio pastrano. Rimasta sola con Rodolfo Mimì rievoca i dolci momenti del loro amore e si stringe ancora, con infinita passione, all'unico uomo che ha veramente amato.Rientrati gli amici, Mimì prende con gioia dalle mani di Musetta un manicotto che ella crede dono di Rodolfo e si assopisce quietamente. Musetta prega per la salvezza dell'amica; Rodolfo continua ad illudersi finché il contegno degli astanti gli rivela che Mimì si è spenta. Piangendo, si getta allora sul corpo della fanciulla invocandola disperatamente.

ATTO I di ANNA BOLENA

pretesto
구실 , 변명 , 핑계 ; 기회 , 챤스

ignaro
모르는 , 무식한 , 무학의 , 경험없는

imbarazzo
방해 , 장해 ; 궁지 , 당혹 , 당황 ;[比] 틀림 , 사기

intuire
직감하다 , 직관적으로 추측하다 , 직관적으로 인식하다 ; 간파하다 , 통찰하다

assalire
공격하다 (적군,사람의언행등을), 습격하다 , 침략하다 ;(성) 포위하다 ;(병기운) 돌발하다 ;[比] 잡다; , 포착하다 , 강탈하다 , 빼았다

rimorso
다시 물린 , 양심가책받은 ; 가책 (범한죄에대한양심의), 후회

commuovere
움직이다 ,(정신적으로) 움직이다 , 감동시키다 ; 영향주다 , 자극하다 , 선동하다

intanto
한편 , 동안에 ; 마침내 (결론,단정), 어떻든간에

diniego
거절 , 부인

turbamento
동요 (마음의); 불안정 ; 혼란 , 방해

replica
반복 , 복제 , 되풀이 (작품);[音] 반복기호 ; 재방송 , 재상연 ; 회답 , 반론

rivelare
나타내다 , 알리다 , 폭로하다 ,同:confidare; 누설하다 ; 나타내다 ; 계시하다

esilio
추방 , 유배 , 망명

sopraggiungere
우연히 일어나다 , 발생하다, 뜻밖에 도착하다

apprendere
깨닫다 , 습득하다 , 공부하다 ; 알다 , 터득하다

intercessione
중개 , 중재 , 조정 ;同:mediazione

turbato
동요하는 , 곤혹한 , 당혹스런

suscitare
일으키다 , 발생시키다 , 북돋다 , 상기시키다

benevolenza
자비심 , 박애 , 자선 , 자비 , 자애

sperare
기대하다 , 바라다 , 희망하다 , 기대하다 , 원하다 ;{sperare che(접속법동반);[Spero che Lei abbia passato una bella vacanza in Grecia.]}

sbarazzarsi
해방되다 , 면하다 , 장해에서 피해나가다

contemperare
부합시키다 , 일치시키다 ; 완화하다 , 조화시키다

ritratto
물러나는 , 은퇴하는 ; 초상화그리는 ; 초상 , 초상화

riporre
돌아오다 (원래의장소에); 정리하다 ;(수확물을) 안에넣다

odio
미움 , 증오

cedere
양보하다 , 양도하다 , 굴복하다 , 퇴거하다 ; 굴복하다 ,(눌려서) 굽어지다 , 쑥들어가다 ; 양도하다

supplicare
간청하다 , 탄원하다 , 애원하다 , 청원하다 , 기원하다

assistere
보좌하다 , 수행하다 , 돕다 , 도와주다 , 지원하다 ; 간호하다 ; 원조하다 , 구호하다 ; 출석하다 , 참석하다 ;(a와함께);-에 참석하다

colloquio
대담 , 좌담 ;-amichevole우호적인대화

minacciare
위협하다 , 협박하다 , 공갈치다 ;(위험이나재난이) 다가오다 ;-할 기미가 있다;

intervenire
간섭하다 , 개입하다 , 개재하다 , 끼어들다 , 손을 내밀다 , 조정하다 , 중재하다 ; 참가하다 , 출석하다 ;(외과의) 수술하다

adulterio
간통 , 간통죄 , 간음 ;commettere un- con qlcu.- 간음하다

accusa
비난 , 고발 , 고소 , 기소 , 탄핵 , 선언

scagionare
무죄를 증명하다 , 무죄임을 변호하다 , 정당화하다

ansia
걱정 , 불안 , 염려 ; 열망 , 갈망 ; 헐떡거림

inconfutabile
논박할수없는 , 반박할수없는 , 거절할수없는

arresto
정지 , 저지 , 멈춤 ;[法] 체포 , 구금 , 억류 , 차압 ;[醫] 기관움직임의 정지 ; 금지 , 제어장치 ;mandato di - [法] 영장

2009년 2월 19일 목요일

L’Elisir d’amore

L’Elisir d’amore
di Gaetano Donizetti (1797-1848)libretto di Felice Romani, da Le philtre di Eugène

ScribeMelodramma giocoso in due atti

Prima: Milano, Teatro della Canobbiana, 12 maggio 1832

Personaggi: Adina, fittavola ricca e capricciosa (S); Nemorino, coltivatore, innamorato di Adina (T); Belcore, sergente di guarnigione nel villaggio (Bar); il dottor Dulcamara, medico ambulante (B); Giannetta, villanella (S); villani e villanelle, soldati e suonatori del reggimento

Atto primo .
Dopo un breve preludio, nell’insolita forma di tema con variazioni, il sipario si apre su una fattoria in un villaggio dei Paesi Baschi, verso la fine del XVIII secolo: i mietitori si stanno riposando dal lavoro dei campi ("Bel conforto al mietitore"). Adina, fittavola ricca e capricciosa, siede in disparte leggendo la storia di Tristano e Isotta. Nemorino, un contadino povero e impacciato, la osserva e si strugge d’amore per lei ("Quanto è bella, quanto è cara"). Sollecitata dai contadini, Adina legge a voce alta la storia che narra di come Tristano fece innamorare Isotta tramite un magico elisir ("Della crudele Isotta"). Nemorino si riconosce subito nella situazione e decide di procurarsi un filtro. Improvvisamente si sente un rullo di tamburo e arriva Belcore, sergente di guarnigione nel villaggio, in cerca di soldati per il suo reggimento. Con fretta e sicumera cerca di sedurre Adina e le propone subito il matrimonio ("Come Paride vezzoso"). Nel duetto seguente Adina fa capire a Nemorino quanto l’amore fedele poco si addica al suo cuore ("Chiedi all’aura lusinghiera"). Annunciato dal suono di una tromba, arriva su un carro dorato il dottor Dulcamara, in effetti un ciarlatano con pretese di taumaturgo, che narra alla folla i propri poteri ("Udite, udite, o rustici"). Affascinato da tanta sapienza, Nemorino si fa avanti e chiede a Dulcamara se possieda «lo stupendo elisir che desta amore». Il ciarlatano intuisce quanto sia sprovveduto Nemorino e gli rifila una bottiglia di vino Bordeaux al prezzo di uno zecchino (tutto ciò che Nemorino possiede), aggiungendo che farà effetto solo dopo ventiquattro ore: giusto il tempo necessario a Dulcamara per allontanarsi dal villaggio. Nemorino, fiducioso di aver nelle mani il potente elisir, incomincia a berne grandi sorsi ("Caro elisir, sei mio"): diventa presto euforico e sicuro di sé, tanto da manifestare indifferenza nei confronti di Adina, la quale si irrita per il suo atteggiamento ("Esulti pur la barbara"). Il desiderio di ripicca è tale in Adina, che ella porta ad acconsentire alla proposta di matrimonio di Belcore; ma il sergente deve partire all’indomani, e propone quindi di anticipare le nozze alla giornata stessa. Nemorino, che sa di poter contare sull’effetto dell’elisir dopo ventiquattro ore, prega Adina di aspettare un giorno a sposare Belcore ("Adina credimi"). Ma Adina si avvia con Belcore, mentre Nemorino smania tra le risa della folla.

Atto secondo .
Nella fattoria di Adina sono in corso i preparativi per le nozze della padrona di casa. Dulcamara e Adina improvvisano una scenetta cantando una barcarola a due voci ("Io son ricco e tu sei bella"). All’arrivo del notaio per la firma del contratto nuziale, Adina annuncia che lo firmerà solo a sera e alla presenza di Nemorino, per vendicarsi di lui. Frattanto Nemorino si dispera per il mancato effetto dell’elisir e per la mancanza di denaro, che gli servirebbe per comperare un’altra bottiglia del magico liquore. Belcore ha il rimedio da suggerirgli: farsi soldato guadagnando così venti scudi e, pensa Belcore, togliendosi dai piedi. Ma le ristrettezze di Nemorino sono in realtà finite, anche se lui ne è ignaro. Non sa infatti l’ultima nuova: Giannetta, una contadina, va in giro raccontando che uno zio di Nemorino è morto lasciandogli una ricca eredità ("Saria possibile"). Tutte le ragazze del paese circondano ora di attenzioni Nemorino, il quale pensa che l’elisir inizi a fare effetto; lo stesso Dulcamara resta perplesso. Adina, che non sa nulla dell’eredità, guarda con sospetto le attenzioni delle giovani verso Nemorino, svelando così i suoi veri sentimenti verso il ragazzo. Dulcamara le racconta di aver venduto l’elisir a Nemorino e Adina capisce di essere amata ("Quanto amore"). Nemorino, da parte sua, si accorge che mentre le ragazze lo corteggiavano una lagrima è spuntata sugli occhi di Adina ("Una furtiva lagrima"), e questo gli dà la certezza di essere corrisposto. Adina riacquista da Belcore il contratto di arruolamento e lo porta a Nemorino ("Prendi, per me sei libero") invitandolo a rimanere nel villaggio. E qui cade il punto debole dell’opera: Nemorino crede finalmente di aver capito che Adina lo ama, ma ella gli annuncia invece che intende lasciarlo. È troppo perché Nemorino non esploda: le rende il contratto e decide di aggiungersi alla guarnigione di Belcore: «poiché non sono amato, voglio morir soldato», dichiara eroicamente. Adina a questo punto capisce che è il momento di gettare la maschera. Gioia «inesprimibile» in entrambi gli amanti ("Il mio rigor dimentica") e scorno di Belcore, soprattutto quando tutti apprendono che Nemorino è diventato il più ricco del villaggio, e trionfo finale per Dulcamara: nessuno può più dubitare degli effetti del suo taumaturgico elisir ("Ei corregge ogni difetto").


Riguardo alla debolezza drammaturgica del finale del secondo atto, l’autografo dell’ Elisir pone alcune questioni importanti. Anzitutto la sua dislocazione tra Napoli e Bergamo: nella biblioteca di San Pietro a Majella il primo atto, il secondo al Museo Donizettiano di Bergamo. Inoltre, dall’autografo del secondo atto furono strappate alcune pagine, corrispondenti alla sezione finale del duetto che inizia con il cantabile di Adina ("Prendi, per me sei libero"; precisamente battuta 54 alla fine). Solo Donizetti stesso, evidentemente insoddisfatto della parte dell’opera corrispondente alla mutilazione, avrebbe potuto permettersi un intervento del genere su un autografo. Poiché le pagine mancanti corrispondono a un taglio divenuto tradizionale, viene da chiedersi come mai Donizetti rese il taglio così definitivo e lo fece in modo così drastico. Questo taglio rende inoltre il duetto tra Adina e Nemorino carico di incongruenze e difficoltà per la rappresentazione poiché, dopo il delizioso coro di donne che discutono sul fatto che Nemorino sia divenuto ricco improvvisamente, nell’unico ensemble del secondo atto (il quartetto "Dell’elisir mirabile"), Adina considera la sua intenzione di smettere di fare la ‘sostenuta’ e di ammettere il suo amore. Quando Adina entra e dà a Nemorino il contratto che ha acquistato da Belcore, in modo che il suo amato non debba partire, canta un’aria ("Prendi, per me sei libero") al termine della quale, chiamata a esporre le sue intenzioni, dice di volersene andare e di non aver nulla da aggiungere. Inconcepibile che, dopo la dichiarazione espressa nel quartetto precedente, di voler rendere palese il suo sentimento, voglia correre il rischio di perdere Nemorino, che infatti prontamente conferma la sua intenzione di partir soldato. Infine, dopo molte esitazioni, Adina confessa il suo amore e non trova altro mezzo che una cabaletta che sembra un esercizio sulla coloratura, convenzionale e assai impegnativa. Evidentemente conscio delle incongruenze che il finale del secondo atto poneva, nel 1843 Donizetti riscrisse interamente questa sezione, il cui autografo, riportato alla luce da Alberto Zedda, si trova alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Riscrisse il cantabile di Adina, in parte sullo stesso testo ("Prendi, per me sei libero"), eliminò l’illogico litigio di Adina e Nemorino (N.: «Or, or si spiega». A.: «Addio». N.: «Che, mi lasciate!». A.: «Io... sì». N.: «Null’altro a dirmi avete?». A.: «Null’altro»), e fece attaccare a quest’ultimo la sua frase ("Poiché non sono amato") subito dopo che Adina gli ha reso il contratto di arruolamento, al termine del cantabile, tagliando la superflua dichiarazione di Adina ("Sappilo alfin, tu mi sei caro"), e sostituendo la cabaletta. La nuova cabaletta ("Ah l’eccesso del contento"), scritta al posto di quella del 1832 ("Il mio rigor dimentica"), è una vera gemma in puro stile belcantistico, che risolve magnificamente la scena.
Resta un unico dubbio: come mai Donizetti non rese pubblico un cambiamento di tale entità? Che egli intendesse questa nuova sezione come sostitutiva di quella del ’32 è confermato sia dal manoscritto di Parigi, sia dal fatto che l’autografo dell’opera completa si trova in due luoghi diversi, Napoli e Bergamo. Partito da Milano per Napoli, Donizetti avrebbe portato con sé l’intero autografo pensando evidentemente di rimetterci mano, cosa che fece a Parigi, dove si era portato l’intero secondo atto, nell’ultimo suo intensissimo anno di attività, il 1843, quando, pur gravemente prostrato dalla malattia, ebbe la forza di comporre due grandi opere, Maria di Rohan e Dom Sébastien . Poi il declino fisico e l’ultimo viaggio a Bergamo, probabilmente con l’autografo di Elisir : epilogo tragico di un lieto fine.

Le Nozze di Figaro - riassunto

Le Nozze di Figaro
di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)

libretto di Lorenzo Da Ponte, dalla commedia Le Mariage de Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais

Commedia per musica in quattro atti

Prima: Vienna, Burgtheater, 1 maggio 1786

Personaggi: il conte d’Almaviva, grande di Spagna (B); la contessa d’Almaviva, sua moglie (S); Susanna, cameriera della contessa (S); Figaro, cameriere del conte (B); Cherubino, paggio del conte (S); Marcellina, governante (Ms); Bartolo, medico di Siviglia (B); Basilio, maestro di musica (T); Don Curzio, giudice (T); Antonio, giardiniere del conte e zio di Susanna (B); Barbarina, sua figlia (S); paesani, contadinelle

Atto primo .
In una camera ancor non ammobiliata, Figaro sta prendendo le misure per il letto, mentre la sua promessa sposa Susanna si prova allo specchio un cappello per la festa di nozze, prevista in quel giorno medesimo ("Cinque, dieci, venti"). Quando Susanna viene a sapere che quella è per l’appunto la camera che il conte d’Almaviva ha loro destinato, ha un moto improvviso di disappunto. Meravigliatissimo, Figaro le spiega invece i vantaggi d’essere a due passi dalle camere dell’aristocratica coppia ("Se a caso Madama"). Susanna spiega allora al fidanzato quale sia il rischio cui stanno andando incontro: il conte, stanco ormai delle grazie della consorte, ha preso a far la corte proprio a Susanna e tenta - con l’aiuto di Basilio che gli fa da mezzano - di recuperare in segreto quello ius primae noctis al quale magnanimamente ha rinunciato con illuminato senso di giustizia. La scelta di quella camera sembra allora opportunissima ai progetti del conte, che cercherà in ogni modo di differire le nozze, onde goder per primo delle grazie virginali della sposina. Suona il campanello e Susanna deve correre al servizio. Rimasto solo, Figaro medita sul da farsi e promette di dar battaglia al conte con tutta la sua arguzia (cavatina "Se vuol ballare, signor contino"). Uscito Figaro, entra in scena la vecchia Marcellina, governante a palazzo: è in compagnia del dottor Bartolo al quale espone le sue rivendicazioni di nozze nei confronti di Figaro. Costui le ha infatti firmato, in cambio di denaro, una cambiale di matrimonio, ed ella pretende ora di effettuare il contratto rivolgendosi al conte per aver giustizia. Bartolo la rassicura e si offre di farle da avvocato: avrà infatti il massimo gusto nel vendicarsi di Figaro ("La vendetta, oh, la vendetta"). Rimasta sola, Marcellina s’imbatte proprio in Susanna e la provoca a distanza. Fra le due nasce un comicissimo scambio d’insinuazioni, ma Marcellina, stizzita, è costretta infine ad abbandonare la stanza ("Via resti servita, Madama brillante"). Entra quindi in scena, agitatissimo, il paggio Cherubino, che si querela con Susanna perché il conte ha deliberato di cacciarlo dal castello, avendolo sorpreso in atteggiamento inequivocabile con Barbarina, cugina di Figaro. Preso in giro da Susanna per le sue follie d’adolescente sempre a caccia di fanciulle, Cherubino confessa il suo smarrimento di fronte al sentimento d’amore ("Non so più cosa son, cosa faccio"). Si sente rumore fuor dell’uscio e Cherubino, udendo la voce del conte, si nasconde dietro un seggiolone per non esser sorpreso en tête à tête con Susanna. Entra quindi il conte che, ignaro della presenza del paggio, rinnova a Susanna le sue profferte d’amore, chiedendole un appuntamento in giardino. Si ode ancora fuor della porta la voce di Basilio, ed è allora il conte a rimpiattarsi dietro il seggiolone, mentre Cherubino scivola dal lato opposto e vi si pone sopra, coperto da un lenzuolo. Agitatissima, Susanna deve ascoltare le raccomandazioni di Basilio, che la invita a cedere al conte, rimproverandola di dar troppo spago al giovane paggio, che peraltro si sarebbe fatto troppo notare nelle sue attenzioni addirittura verso la contessa. Infuriato per la maligna insinuazione, il conte si alza dal suo nascondiglio e promette un’immediata punizione per Cherubino, invano difeso da Susanna. Il conte racconta allora di come proprio il giorno prima abbia sorpreso il paggio sotto un tavolo in casa di Barbarina: nel mimare la scena dello scoprimento, solleva distrattamente il lenzuolo dal seggiolone, e si trova così davanti, ancora una volta, lo spaurito Cherubino. Il conte poi è costretto a trattenere la propria ira perché in quel mentre giunge Figaro con una brigata di paesani a pregarlo di porre il velo candido sul capo della sposina, simbolo della sua rinunzia all’ingrato diritto feudale. La provocazione viene incassata da Almaviva, che però ordina segretamente a Basilio di rintracciare Marcellina al fine di bloccare le nozze. Quindi, implorato da Figaro e Susanna di perdonare il paggio, il conte muta l’espulsione dal castello in una promozione militare, e lo nomina ufficiale. Figaro si congeda allora da Cherubino canzonandolo: è finita la sua vita di cicisbeo, comincia la dura carriera di soldato ("Non più andrai, farfallone amoroso").

Atto secondo .
Sola nella sua camera da letto, la contessa lamenta la sua condizione di sposa negletta ("Porgi amor"). Entra Susanna e le racconta dei tentativi di seduzione del conte nei suoi confronti. Giunto nella stanza, Figaro comincia a ordire la trama per smascherare il padrone: decide insieme alle due donne d’inviare al conte un biglietto anonimo che lo faccia ingelosire riguardo alla contessa, e nel contempo d’inviare nottetempo Cherubino travestito da donna in giardino all’appuntamento che Susanna avrà dato al conte, onde la contessa possa sorprendere il marito infedele davanti a tutti. Figaro invia quindi nella camera Cherubino - non ancora partito per Siviglia - in modo che provi gli abiti femminili. Coperto di rossore, il paggio viene poi obbligato dalla contessa a cantarle la canzonetta che ha scritto ("Voi che sapete"), e quindi Susanna comincia a vestirlo, notando fra l’altro la premura con cui era stato redatto il suo brevetto d’ufficiale, al quale manca il necessario sigillo. Mentre la cameriera è andata a prendere un nastro in una camera contigua, il conte bussa alla porta, gettando la contessa e Cherubino nella più grande agitazione. Cherubino si rifugia allora nel guardaroba, chiudendovisi a chiave. La contessa apre al marito, visibilmente imbarazzata, e mentre cerca di giustificare la chiusura della porta s’ode dal guardaroba uno strepito d’oggetti caduti. Il conte, già allarmato per il biglietto anonimo ricevuto, s’insospettisce vieppiù, e la moglie è costretta allora a mentire dicendogli che in guardaroba c’è Susanna che sta provandosi l’abito di nozze (terzetto "Susanna, or via sortite"). Costei è nel frattempo rientrata nella stanza e osserva la scena nascosta dietro il letto. Il conte decide di sfondare la porta e invita allora la consorte a uscir con lui per prendere gli attrezzi necessari. Rimasta sola e chiusa in stanza, Susanna bussa al guardaroba, donde esce Cherubino spaventatissimo. Non c’è per lui altra via di scampo che gettarsi dalla finestra in giardino, mentre Susanna prenderà il suo posto nel guardaroba. Rientra il conte, e la moglie decide di svelargli l’arcano: nel guardaroba non c’è Susanna, ma il paggio seminudo, là convocato per una burla innocente. L’ira del conte perde allora ogni controllo, tanto che questi s’avventa alla porta del guardaroba per uccidere il paggio ("Esci ormai, garzon malnato"). Invece, con sbigottimento d’entrambi, dallo stanzino ecco uscire Susanna. Il conte chiede perdono alla sposa per i sospetti manifestati e le parole grosse che son corse, e tenera di cuore - oltre che non poco sollevata - la contessa lo perdona. Giunge però Figaro, che chiama tutti alla festa. Il conte gli sottopone allora il biglietto anonimo, che le due donne gli hanno rivelato esser stato scritto dal cameriere. Figaro prima nega, poi deve arrendersi all’evidenza e confessa. Le sorprese non sono però finite: sul più bello entra il giardiniere Antonio con un vaso di garofani in pezzi, denunciando la mala creanza di qualcuno che si è buttato dalla finestra sui suoi fiori. Tutta l’architettura d’imbrogli e menzogne sta per crollare: Figaro si autoaccusa allora d’esser saltato egli stesso per paura del conte, e Antonio fa allora per dargli un foglio caduto al saltatore, ma il conte lo intercetta e chiede a Figaro cosa sia quel pezzo di carta che ha perduto. Figaro, disperato, cerca d’inventarsi qualcosa: gli vengono in soccorso le due donne, che riconoscono in quel foglio il brevetto d’ufficiale di Cherubino. Il conte chiede allora perché proprio Figaro ne sia stato in possesso, e di nuovo Susanna e la contessa lo traggono d’imbarazzo suggerendogli che il paggio glielo avrebbe dato perché mancante dell’indispensabile sigillo. Scornato per l’ennesima volta, il conte si vede infine assistito dalla sorte: entrano infatti Marcellina, Bartolo e Basilio a reclamar giustizia per la vecchia governante, che pretende, cambiale alla mano, di sposare Figaro. Il conte gongola soddisfatto e promette una sentenza che lo compensi degli imbrogli subiti.

Atto terzo .
Nella sala preparata per la festa nuziale di Figaro e Susanna, il conte medita sugli avvenimenti cui ha assistito, senza riuscire a trovarne il bandolo. Entra Susanna che, d’accordo con la contessa, ma ad insaputa di Figaro, dà un appuntamento al conte per quella sera, riaccendendo le sue voglie ("Crudel! Perché finora farmi languir così?"). In realtà, la contessa ha deliberato di recarsi ella stessa all’appuntamento, con gli abiti di Susanna. Uscendo dalla stanza, Susanna incontra Figaro e l’avverte che ha già vinto la causa con Marcellina. Il conte coglie però quest’ultima frase, e giura di vendicarsi ("Vedrò mentr’io sospiro"). Segue quindi la scena del giudizio, nella quale il magistrato Don Curzio intima a Figaro di pagare Marcellina o di sposarla. Figaro tenta allora in extremis di bloccare la sentenza adducendo l’assenza dei suoi genitori per il consenso. Racconta d’esser stato raccolto infante abbandonato, ma d’essere di nascita illustre come testimoniano i panni ricamati trovati nella culla e soprattutto il tatuaggio impresso al braccio destro. Marcellina a quel punto trasalisce e riconosce in Figaro il suo Raffaello, figlio avuto in segreto da Don Bartolo e quindi esposto. Nello sbigottimento generale, Don Curzio sentenzia che il matrimonio non può aver luogo, mentre il conte abbandona la scena scornato per l’ennesima volta (sestetto "Riconosci in questo amplesso"). Sopraggiunge Susanna, pronta a pagare Marcellina con la dote ricevuta dalla contessa, ma con sua gran meraviglia vede Figaro abbracciato teneramente alla vecchia. La promessa sposa ha un moto d’ira e schiaffeggia Figaro, ma Marcellina l’informa dei nuovi sviluppi e dell’insperato riconoscimento. Anch’ella e Bartolo decidono di regolarizzare l’unione, e di rendere così doppia la festa di nozze. Frattanto, Cherubino non è ancor partito per il suo reggimento e viene condotto da Barbarina a travestirsi da donna per confondersi con l’altre contadine. La contessa, sola in attesa di notizie da Susanna, rievoca le dolcezze perdute del suo matrimonio e spera di riconquistare il cuore del marito ("Dove sono i bei momenti"). Raggiunta poi da Susanna, le detta un biglietto da consegnare al conte durante la festa, nel quale si conferma il luogo dell’appuntamento per quella sera (duettino "Che soave zeffiretto"); inoltre, fa scrivere a Susanna sul rovescio del foglio di restituire la spilla che serverà di sigillo, in segno d’accettazione. Arrivano le ragazze del contado, e fra queste c’è anche Cherubino travestito. In breve, però, costui vien smascherato da Antonio che lo denuncia al conte. Figaro arriva per chiamar tutti alla cerimonia e si scontra col conte, che può finalmente accusarlo per tutte le menzogne inventate in camera della contessa. La tensione è al massimo, ma è tempo di celebrare le nozze: entra il corteo dei doppi sposi, al quale segue la danza del fandango. Durante questa, Susanna lascia scivolare in mano al conte il bigliettino. Costui si punge con la spilla e poi si mette a cercarla goffamente per terra. Figaro lo scorge, e crede che sia un biglietto amoroso di qualche contadina. Ritrovato il sigillo, il conte congeda tutti i presenti e li invita alla gran cena di quella sera.

Atto quarto .
Di notte, nel giardino del castello, Barbarina cerca la spilla che il conte le ha dato da recare a Susanna ("L’ho perduta"). S’incontra con Figaro, che dalle sue labbra viene così a sapere che la mittente del biglietto altri non era che la sua sposa. Annientato dalla gelosia, chiede conforto alla madre Marcellina, che cerca di placarne i bollenti spiriti ("Il capro e la capretta"); Figaro tuttavia s’allontana per organizzare lo scoprimento dei due fedifraghi. Basilio e Bartolo, convocati da Figaro, riflettono sui pericoli di scontrarsi coi potenti. Rimasto solo, Figaro si lascia andare a considerazioni amare sul suo stato di marito tradito nel giorno stesso delle nozze e accusa le donne d’essere la rovina dell’umanità ("Aprite un po’ quegli occhi"). Giunge in giardino Susanna con la contessa, e comincia la recita degli inganni. Fingendo di restar sola «a prendere il fresco», Susanna eccita la gelosia di Figaro ("Deh vieni non tardar"). In realtà, è la contessa che si appresta a ricevere le avances del conte, ma mentre lo sta aspettando sopraggiunge Cherubino, che scorgendo colei che egli crede esser Susanna decide di importunarla a sua volta con piccanti proposte ("Pian pianin le andrò più presso"). Figaro osserva tutto nascosto dietro una siepe e commenta velenosamente, senza accorgersi che anche Susanna è lì a due passi in sentinella. Arriva il conte, che s’adira nel vedere il suo oggetto del desiderio in compagnia d’un altro uomo. Tira allora un ceffone a Cherubino, ma questi si scosta ed è Figaro a buscarsi la sberla. Rimasto finalmente solo con la finta Susanna, il conte le regala un brillante e l’invita ad appartarsi con lui in un luogo buio. Figaro non si regge più e passa facendo baccano: la contessa allora si ritira in un padiglione a destra, mentre il conte perlustra il giardino per non trovarsi tra i piedi ulteriori scocciatori. Amareggiatissimo, Figaro s’imbatte allora in Susanna, che è vestita col mantello della contessa e simula la sua voce. La sposa lo mette alla prova e offre a Figaro l’occasione di vendicarsi seduta stante dei due consorti infedeli. Figaro dopo poche battute l’ha riconosciuta, ma continua a stare al gioco, finché la situazione si chiarisce e i due si riconciliano felici. Si tratta allora di concludere la commedia ai danni del conte: vedendolo arrivare, Figaro e Susanna continuano perciò la loro scena di seduzione. Il conte, furibondo, vedendo quella ch’egli crede sua moglie corteggiata da Figaro in giardino, chiama tutti a smascherare i due reprobi; frattanto, Susanna si nasconde nel padiglione a sinistra. Davanti ad Antonio, Basilio e Bartolo, il conte accusa Figaro e comincia a trar fuori dal padiglione una vera processione di personaggi: Cherubino, Barbarina, Marcellina e infine Susanna, che tutti credono la contessa e che si copre il volto per la vergogna. L’ira del conte è implacabile e oppone un diniego dopo l’altro ad ogni supplica di perdono da parte di Figaro e della falsa contessa. A questo punto, dall’altro padiglione esce la vera contessa e tutti si rendono conto dell’imbroglio. Ella si scambia il mantello con Susanna e si rivolge al marito dicendogli: «Almeno io per loro perdono otterrò». Il conte s’inginocchia umiliato e consapevole d’aver fatto la corte a sua moglie. Le chiede perdono e l’ottiene, mentre tutti commentano soddisfatti la fine di quel giorno «di capricci e di follia», e invitano a recarsi ai festeggiamenti per quel matrimonio tanto sospirato.


Al di là degli innegabili accenti prerivoluzionari che la folle journée di Beaumarchais si portava dietro, l’‘estratto’ realizzato da Mozart e Da Ponte ha caratteristiche che superano di gran lunga l’attualità del tema sociale e lo pongono in una dimensione superiore, quella della commedia umana. Le nozze di Figaro è infatti prima di tutto un dramma dei sentimenti, ove tutto si confonde - amore, sesso, gelosia, ira, riscatto di classe, orgoglio aristocratico, malinconia, gioco e, last but not least , leggerezza - ma al fine di mostrare, nel carosello dei personaggi, un panorama di emozioni, mai sottoposto a giudizio morale. Nessuno, neppure lo stesso Almaviva, viene infatti seriamente giudicato, benché messo alla berlina: tutti i protagonisti della vicenda (che in effetti non ha poi figure davvero egemoni) sono mossi da un medesimo motore, che è il bisogno d’amore, sia esso considerato semplicemente come desiderio sessuale - per esempio nel conte o nel meraviglioso ritratto di Cherubino, adolescente alla scoperta dei piaceri - oppure come nostalgia d’una felicità perduta (la contessa), o ancora come puro affetto familiare e borghese (la coppia di Figaro e Susanna), benché già minato sul nascere dai sospetti e dalle civetterie. Come ha splendidamente intuito Massimo Mila nella sua esemplare Lettura delle Nozze di Figaro , l’eros dell’opera è in realtà una formidabile metafora della ricerca della felicità, il grande mito dell’Illuminismo che qui s’incrina sullo scetticismo mozartiano, in un primo capitolo di quello che è forse considerabile come il più grande trattato sull’amore mai scritto: il seguito, nella dimensione epica d’un vero eroe tragicamente proiettato sull’impossibilità d’amare, sarà il Don Giovanni, e la conclusione, amara fino al prezzo del cinismo, si chiamerà non a caso Così fan tutte , prendendo il titolo da una battuta crudele di Don Basilio nel primo atto delle Nozze .
La riprova di questa rappresentazione disincantata di una umanità febbrilmente persa nel suo sogno d’appagamento giunge proprio alle ultime battute dell’opera, laddove ormai è avvenuto lo scoprimento di ogni imbroglio: quando Il conte s’inginocchia alla consorte e le chiede perdono col candore di una palingenesi sentimentale; quando quel perdono giunge con evangelica catarsi, esso intride la musica di una malinconia fino a quel momento mai così intensa e vera; quando tutti in coro dovrebbero intonare gioiosamente "Or tutti contenti saremo così", là Mozart ha consegnato alla musica, in aperta contraddizione col significato delle parole, il senso della vanità d’ogni umana speranza, il miraggio solo momentaneamente consolatorio, ma perfettamente inattingibile, della felicità su questa terra.
L’esperimento di Mozart e Da Ponte è riuscito, per la prima e forse ultima volta nella storia della musica, a superare i confini dei generi, sia nel teatro che nello stile musicale. Seguendo la traccia appena abbozzata da Paisiello nel suo Barbiere di Siviglia (egualmente tratto da Beaumarchais), musicista e librettista hanno liberato l’opera buffa dai suoi stereotipi ancora indebitati con la commedia dell’arte. Nelle Nozze , i personaggi hanno un rilievo psicologico affatto nuovo, uno sbalzo drammatico mai incontrato in precedenza, e per questo si trasformano in figure indelebili dalla memoria dello spettatore. Oltre che alla perfezione assoluta della drammaturgia e del testo, la folgorante capacità di ritrarre i diversi tipi umani risiede soprattutto nella musica, che allarga il territorio dell’opera buffa con frequenti e sapienti prestiti dallo stile serio. Ad esempio nelle due grandi arie della contessa, intrise di una malinconia che non ha proprio nulla a che vedere con la tradizione comica; o anche l’unica aria del conte, il cui piglio fiero e virtuosistico ne fa una perfetta contaminazione di un genere nell’altro. La grande novità nella costruzione drammatica sono tuttavia i pezzi d’insieme, vero punto di forza del ritmo travolgente di questa che, giustamente, Da Ponte volle definire «commedia per musica» e non ‘opera buffa’. Come già era in parte avvenuto nell’ Idomeneo e nella Entführung aus dem Serail , nei pezzi d’insieme (duetti, terzetti, sestetti, e particolarmente i due smisurati finali del secondo e quarto atto), le psicologie trovano il luogo deputato al conflitto e al confronto, e si fanno assai più sottili e intelligibili di quanto non avvenga nei pur mirabili recitativi secchi. Il luogo eccelso della maestria di Mozart nel costruire in musica il coup de théâtre , è pertanto il finale del secondo atto, dove in un crescendo di tensione drammatica irresistibile gli attori in scena passano da due a sette, in venticinque minuti di musica ininterrotta e fluviale.
Un cenno merita anche il trattamento dell’orchestra, che non è certo il meno rivoluzionario degli elementi che concorrono alla sublime fisionomia dell’opera. Tra il Ratto dal serraglio e le Nozze di Figaro passano quattro anni, un periodo nel quale Mozart affinò in misura inaudita le sue doti di orchestratore, grazie in particolare ai concerti per pianoforte e orchestra, che in molti casi appaiono come cartoni preparatori di immaginarie scene di teatro, nei diversi registri stilistici del patetico, del buffo, del lirico, e via dicendo. La nuova ricchezza degli strumenti a fiato, con le loro morbidezze e un’impagabile sottigliezza espressiva, entra a far parte a pieno titolo della scrittura delle Nozze di Figaro , tanto che si potrebbe a buon diritto sostenere che il fitto dialogo fra voci e strumenti sia il più autentico e acutissimo scandaglio delle emozioni e dei sentimenti che percorrono la commedia.

Anna Bolena - riassunto

Anna Bolena
di Gaetano Donizetti (1797-1848)

libretto di Felice Romani, da Enrico VIII, ossia Anna Bolena di Ippolito Pindemonte, Henri VIII di Marie-Joseph Chénier e Anna Bolena di Alessa

Tragedia lirica in due atti

Prima: Milano, Teatro Carcano, 26 dicembre 1830

Personaggi: Enrico VIII, re d’Inghilterra (B); Anna Bolena, sua moglie (S); Lord Rochefort, fratello di Anna (B); Giovanna di Seymour, damigella di Anna(S); Lord Riccardo Percy (T); Smeton, paggio e musico della regina (A); Sir Hervey, ufficiale del re (T); cortigiani, ufficiali, Lords, cacciatori, soldati

Atto primo .
Castello di Windsor, 1536. Enrico VIII è ormai stanco di Anna Bolena, la sua seconda moglie, e vorrebbe liberarsene con un pretesto per poter sposare Giovanna di Seymour. Anna, ancora ignara del suo destino, avverte attorno a sé silenzio e imbarazzo e cerca conforto proprio in Giovanna, che a sua volta, intuendo i disegni del re, è assalita dal rimorso e teme per la regina. Una canzone intonata da Smeton, paggio e musico della regina e di lei innamorato, commuove Anna che ripensa con nostalgia a Lord Riccardo Percy, il suo primo amore ("Come, innocente giovane"). Intanto Giovanna si incontra con re Enrico, dal quale apprende che egli desidera farla sua sposa e regina. Ai dinieghi e al crescente turbamento di Giovanna, il re replica rivelando di essere a conoscenza di un amore giovanile di Anna. Giovanna si augura che ciò non sia preludio a qualche tragico evento. Nel parco del castello, Rochefort, fratello di Anna, si è nel frattempo imbattuto proprio in Percy, graziato dal re e appena ritornato dall’esilio. Il giovane, che non ha mai dimenticato Anna, è tornato solo per rivederla. Sopraggiunge il re con Anna. Percy apprende così di essere stato graziato per intercessione della stessa regina. La reazione dei due antichi amanti, che nel rivedersi restano turbati, suscita il crudele divertimento del re, che finge grande benevolenza sperando in un pretesto per sbarazzarsi di Anna. Intanto, nell’appartamento di Anna, Smeton contempla con amore un ritratto della regina, che ha segretamente sottratto e che ora sta per riporre ("Ah, parea che per incanto"): al sopraggiungere di questa e di Rochefort si nasconde. Dopo un colloquio con il fratello, Anna rimane sola e si pente di avere ceduto al desiderio di rivedere il suo antico amore. Sopraggiunge Percy che, intuendo l’infelicità di Anna e l’odio di Enrico per lei, le chiede apertamente di cedere ai sentimenti di un tempo. Quando Anna rifiuta e lo supplica di partire, Percy, disperato, sguaina la spada per uccidersi. Smeton, che ha assistito al segreto colloquio e che crede minacciata la regina, interviene. Sopraggiunge il re, che davanti ai cortigiani e alle dame accusa Anna di adulterio; nell’ansia di scagionare la regina, Smeton ne lascia cadere il ritratto. Di fronte a una prova che a tutti appare inconfutabile, Enrico ordina l’arresto di Anna, Percy, Rochefort e Smeton.

Atto secondo .
Mentre in carcere Anna affronta il dolore dell’ingiustizia subita, Seymour è in preda all’angoscia e al rimorso. Si incontra in segreto con la regina per consolarla e tentare di salvarla: se ammetterà il tradimento sarà graziata. Di fronte allo sdegnato rifiuto della regina, Giovanna rivela incautamente che il re ama un’altra donna. Anna si adira e Giovanna si smarrisce sempre più fino a svelare tra le lacrime di essere la nuova favorita del re. Commossa da tanto strazio, la regina perdona e consola la rivale ("Va’, infelice e teco reca"). Intanto, convinto di salvare così la vita di Anna, il giovane Smeton si accusa di esserne stato l’amante offrendo finalmente a Enrico il pretesto per una condanna. In un drammatico confronto, Percy rivela al re che Anna è stata sua sposa e reclama i suoi diritti, ricusando qualsiasi pretesa accusa di tradimento da parte del re. Enrico comprende che Percy tenta di far cadere così l’accusa di adulterio nei confronti di Anna e affida il loro giudizio al Consiglio dei Pari. Mentre si attende il verdetto, Giovanna incontra il re e lo scongiura di graziare Anna poiché il rimorso la spingerebbe a lasciarlo, nonostante lo ami ("Per questa fiamma indomita"); Enrico, tuttavia, appreso che il Consiglio dei Pari ha ratificato la condanna di Anna, non si pronuncia e congeda Giovanna. Intanto nelle prigioni della Torre di Londra, Hervey, ufficiale del re, comunica a Percy e a Rochefort che Enrico intende graziarli ma che persegue nel proposito di riservare la pena capitale alla regina. Indignati, i due nobili scelgono entrambi di seguire Anna al supplizio ("Vivi, tu, te ne scongiuro"). Mentre si odono i cannoni che festeggiano le nozze tra Enrico e Giovanna di Seymour, Anna alterna momenti di lucidità e di delirio ("Al dolce guidami castel natio"); rivive il matrimonio con il re, l’amore giovanile per Percy e si strugge per la morte degli innocenti. Poi, invocando sulla coppia regale il perdono divino, muore ("Coppia iniqua, l’estrema vendetta").


L’opinione ancora oggi diffusa che Anna Bolena sia una sorta di evento eccezionale e del tutto inatteso all’interno dell’itinerario compositivo donizettiano deve essere corretta. Certamente, alcuni elementi favorevoli concorsero a fare di quest’opera una tappa fondamentale nell’evoluzione dello stile di Donizetti, consentendogli di guadagnare un ampio margine di autonomia rispetto alla tradizione rossiniana e di pervenire così a modi e soluzioni drammaturgiche sempre più personali. Il libretto approntato da Romani, ben superiore ai precedenti di Chiara e Serafina e di Alina, regina di Golconda sotto il profilo stilistico e per lo spessore drammatico e narrativo, era tratto in parte dalla tragedia di Ippolito Pindemonte Enrico VIII, ossia Anna Bolena (scritta nel 1816 ma a sua volta largamente attinta all’ Henri VIII di Marie-Joseph Chénier del 1791), in parte dall’ Anna Bolena di Alessandro Pepoli (1788) e consentì a Donizetti di pervenire a un linguaggio drammatico maturo, capace, come nella scena finale, di imporsi con la sua valenza espressiva al di là del normale avvicendarsi delle formule melodrammatiche della tradizione. Tutte le sostituzioni, i tagli e i rifacimenti apportati da Donizetti alla partitura riducono al minimo le naturali e inevitabili cesure tra il tessuto narrativo dei recitativi e quello lirico-contemplativo dei pezzi chiusi. Donizetti cercò anche di assicurare alla partitura una maggiore coerenza e coesione drammaturgica utilizzando alcuni motivi ricorrenti. Per tutte queste ragioni, Anna Bolena rappresentò un risultato sino ad allora inedito. Il legame con il passato non deve però essere taciuto, per la non trascurabile mole di brani che il musicista, secondo una tendenza in lui non certo nuova, trasse da opere precedenti: Imelda de’ Lambertazzi (duetto Anna-Percy, I,12), Otto mesi in due ore (quintetto "Io sentii sulla mia mano", I,8) e Il paria (introduzione al duetto Anna-Percy).
Per questo, l’opera guarda sia alla tradizione sia al futuro: porta a un grado di maturazione inedito quanto conseguito sino ad allora e al tempo rinuncia in modo definitivo al finale lieto per abbracciare il nuovo genere della tradizione romantica e, grazie al particolare ‘taglio’ voluto da Romani, spinge la musica a tratteggiare nei particolari più minuti la sottile e complessa psicologia della protagonista, secondo una linea che sarà approfondita in Lucia di Lammermoor . Speciale attenzione venne rivolta da Donizetti alla scrittura vocale: mai come in Anna Bolena la necessità di accordare le esigenze degli interpreti alla ricerca di un canto espressivo perviene a esiti di tale perfezione. Oltre alle arie e ai duetti (si noti, per inciso, la mancanza di un’aria per il personaggio di Enrico) assumono particolare rilevanza i concertati, che nel primo atto sono addirittura due e rappresentano un terreno sul quale Donizetti si muoveva da sempre con disinvoltura, mediando tra la regolarità imposta dalla costruzione formale e l’esigenza di un canto espressivo, specie nelle parti dominate dal calore e dall’umanità della protagonista.

La Bohème - riassunto

La Bohème
di Giacomo Puccini (1858-1924)
libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger

Scene liriche in quattro quadri

Prima: Torino, Teatro Regio, 1º febbraio 1896

Personaggi: Mimì (S); Musetta (S); Rodolfo, poeta (T); Marcello, pittore (Bar); Schaunard, musicista (Bar); Colline, filosofo (B); Parpignol, venditore ambulante (T); Benoît, padrone di casa (B); Alcindoro, consigliere di stato (B); il sergente dei doganieri (B); studenti, sartine, borghesi, bottegai e bottegaie, venditori ambulanti, soldati, camerieri da caffè, ragazzi e ragazze

Atto primo .
Il freddo e Parigi sono il fondale di verità della Bohème . Tutta l’opera si svolge nell’attesa che Parigi resti tale senza più il freddo che, da reale, si assume presto a metafora dell’esistenza. Il dialogo iniziale tra Marcello e Rodolfo ("Nei cieli bigi") sottintende tutto il consueto conflitto di arte e realtà, nella verifica del classico carmina non dant panem ; in questo dialogo incombe il fondale: la città sotto la neve e fumante in mille comignoli, che Rodolfo guarda dall’alto della soffitta, mentre impreca contro il non funzionante, perché non alimentato né dalla sua né da altre arti, caminetto (nel quale sarà da scorgere per simbolo la ricerca del quasi pascoliano nido di quiete che percorre intera tutta la storia di Puccini come autore: la casetta rammentata da Tosca al suo Mario, il nido profanato di Butterfly, quello invaso dai Proci buoni di Minnie, di Frugola nel Tabarro - all’ombra sentimentale di un’altra Parigi, dove tuttavia un venditore di canzonette cita ‘la canzone di Mimì’ - di Ping, Pang e Pong alla corte di Turandot). Anche la stagione dell’amore, benché si sia in gioventù ( Bohème è una tragedia della giovinezza), è fredda in questa Parigi 1830, come Marcello dice: «Ho diacciate / le dita quasi ancora le tenessi immollate / giù in quella gran ghiacciaia che è il cuore di Musetta» (i verbi d’esordio di Marcello erano stati «ammollisce e assidera», qui replicati in «immollate» e «ghiacciaia», per dire minimamente del cesello librettistico); ma ci vuol più ad alimentare un cuore che un caminetto; Rodolfo e Marcello sono d’accordo che «L’amore è un caminetto che sciupa troppo... e in fretta!». Il cinismo di Marcello perdurerà, quello di Rodolfo si scioglierà presto: intanto bruciano quel che trovano nell’esperienza loro (rapidamente l’orchestra accompagna la carta che si disfà in cenere in un «lieto baglior» breve breve, con l’orchestra che cade appresso dall’alto in basso; il fuoco si riprende, con l’orchestra detta dai fiati, poi da un pizzicato d’archi, all’aggiunta di uno scartafaccio più consistente, presto consumato anche questo; il tema rallentato dagli archi fino a morire è il fuoco stesso che si spegne: dunque l’autore è stato di poca consistenza. Nell’orchestra che segue il piroettare delle fiamme sarà da vedersi non soltanto un gusto mimetico, ma il segno del particolare realismo di Puccini, bilanciato fra impressione ed espressione). È la vigilia di Natale e questa gioventù che brucia ha molta fame. Ed ecco all’improvviso comparire legna, sigari e vino: Schaunard ha trovato modo di raccattare le monete mai viste nella povertà e i vettovagliamenti sognati: ma sono destinati al futuro, non si può stare in casa nella vigilia del giorno di festa. Parigi, a chi se l’immagina senza esserci stato, come allora Puccini, che quando la vedrà ne resterà deluso, è tutti i suoi monumenti, ma è soprattutto un posto non monumentale. Parigi è il Quartiere Latino, dove si presume di mangiar bene e a poco, che è quel che tutti cercano. E non c’è affitto da pagare che tenga: si può ben essere cinici con un padrone di casa, Benoît, che alla sua età è un vecchio sporcaccione; al Mabil, l’altra sera, s’è fatto cogliere in peccato d’amore con una donna di una certa consistenza, ma giusta per lui che detesta le magre; donde il ricatto: o rassegnarsi a che si spifferi tutto alla di lui moglie o rinunciare all’affitto. È costretto a rinunciare con una «dolce violenza», come recita la didascalia di Schaunard mentre sull’inizio lo costringe a sedere. Mentre Schaunard, Colline e Marcello vanno al Quartiere Latino, Rodolfo, che deve terminare l’articolo di fondo del ‘Castoro’, resta in casa. Mestierante com’è pensa di sbrigarsela in fretta, scrive ma accartoccia e getta via, accorgendosi presto di non essere in vena. Mentre sta lì, bussano alla porta. È Mimì, la dirimpettaia, che non sa più come accendere il lume che le si è spento, e che, in aggiunta, subito sviene, suscitando le preoccupazioni di Rodolfo, che le offre un po’ di quel vino col quale ha da poco brindato con gli amici, facendo ben inciuccare Benoît. «Poco, poco» dice Mimì, che già si sente meglio, ma intanto ha perso la chiave di casa. Si mette a cercarla con Rodolfo, che la trova e la nasconde perché vuol stare con Mimì: un po’ per il buio, un po’ perché così gli piace, le struscia la mano e le dice com’è fredda, corteggiandola; anzi, visto che ci si trova, le racconta in breve la sua storia: di un poeta che vive con poco ("Che gelida manina"), in lieta povertà. Mimì si mette sulla stessa corda e gli racconta di essere una che ricama, a cui piacciono i fiori, che prega ma non va sempre a messa: e dice di aspettare lo «sgelo», per inebriarsi del primo sole di aprile ("Sì, mi chiamano Mimì"). Insomma si innamorano sotto la sigla di questo ‘sgelo’ anticipato dal cuore, che è come il motore nascosto ma di cui si sente il rombo in Bohème ("O soave fanciulla"). Vanno anche loro al Quartiere Latino, al caffè Momus, benché Rodolfo abbia fatto capire, con sbrigativa e tuttavia galante esplicitezza, che sarebbe stato meglio restare nel caldo improvviso di quella soffitta, dovuto non solo e non proprio alle fascine procurate da Schaunard.

Atto secondo .
C’è festa e c’è folla al Quartiere Latino, ci sono venditori e negozi; così, mentre per conto loro gli amici vanno alla ricerca di un posto dove mangiare, possibilmente un tavolino da Momus, Rodolfo regala a Mimì una cuffietta rosa, che le sta così bene visto com’è bruna. Colline, intanto, s’è comprato una zimarra rattoppata ma dignitosa. L’altra coppia di Bohème è travagliata, più spine che rose. Marcello e Musetta, allegra donnetta, hanno litigato, ma, suscitando e per suscitare la rabbia di Marcello, lei riappare in disinvolto fulgore, annunciandosi con un valzerino che fa impazzire in un altro modo da Marcello l’attuale cavalier servente ("Quando me n’vo’"). Musetta fa di cognome Tentazione nella descrizione da rapace che ne fa Marcello, fa per vocazione «la Rosa dei Venti» e d’ordinario si ciba di cuori. Intanto Musetta celebra le proprie lodi, che appaiono al cavalier servente Alcindoro, nientemeno che un consigliere di stato, un «canto scurrile»: dunque Musetta è cantante, canta proprio nella realtà della scena, non soltanto nella scena d’opera, e come una diva mette letteralmente ai suoi piedi Alcindoro (dice di un dolore e di un bruciore e al «dove?» di Alcindoro, che già «si china per slacciare la scarpa a Musetta», risponde «al pie’», «mostrando il piede con civetteria», vezzoso finale di un monologo vanitosissimo che immette in una scena di piena coralità per dar esito al molto corale secondo quadro dell’opera, che s’esaurisce al declinare della vigilia del dì di festa in una malinconiosa lontananza di tamburi). Mentre Alcindoro va a procurare un altro paio di scarpe per far star comoda Musetta, Marcello, irresistibilmente riconquistato, se la porta via in braccio. Il consigliere di stato riappare con un cartoccio racchiudente le calzature, in una scena tenera e ironica, non per lui: addossandosi ruolo, costi quel che costi, di cagnolino pronto ai piedini vezzosi della sua padrona. E, alla presentazione del conto che gli è stato lasciato dall’allegra brigata, non sa più cosa dire.
Terminato questo blocco di sostanziosa unità spazio-temporale, la narrazione di Bohème fa un salto. Per l’intanto è comunque da notare come la coerenza della narrazione abbia udibile riscontro nello svolgimento musicale. Se alla ricchezza melodica s’era voluta spesso contrapporre da taluni una relativa parsimonia tematica, bisogna dire che l’oculatezza di Puccini nello sfoderare temi su temi ha una sua propria necessità di tessitura narrativa, con riprese ed espansioni calibrate, luminosamente procurate, costituenti la quarta dimensione del libretto. Per dire che la riuscita di Bohème sta nell’assoluta adeguatezza e interdipendenza di parole, situazione drammatica e musica. Per il libretto strettamente inteso, ne va riconosciuta la notevole consistenza drammaturgica: per quanto contrastato, il lavoro svolto da Illica e Giacosa sotto le non flessibili direttive di Puccini è riuscito nell’impresa di una delle opere più felici dell’intero repertorio, e il tempo ha mostrato la consistenza di quel valore, degno della musica che lo porta. Alla quale musica, per buona parte ma non per l’integrità dell’opera, arrise subito successo, anche se poi il giudizio complessivo volle vedere un regresso rispetto a Manon e al suo presunto sinfonismo. In Bohème anche la discussa questione del nodo di naturalismo, verismo e decadentismo in Puccini è affare ingarbugliato. Si direbbe che questa musica ‘tiene’, in senso anche, se non esclusivamente, tecnico e retorico, a una dolcezza che diventa fatto orchestrale, ovvero lirismo delle piccole cose di un piccolo mondo che si immagina come compiuto universo, in sé conchiuso. Una tradizione molto italiana, da paese del melodramma, ma non a caso trapiantata in ambiente di Francia, tra finezza e geometria; non olî, non acquerelli: l’orchestra di Bohème colora e contorna col pastello e talvolta con la disinvoltura di un artigiano dei gessetti, o del carboncino; ma di quell’artigianato sa sempre fare un’arte per intensità della mano. Come quest’arte somigli tanto a un artigianato e non lo sia, è tutto il mistero del genio Puccini.

Atto terzo .
«La voce di Mimì aveva una sonorità che penetrava nel cuore di Rodolfo come i rintocchi di un’agonia», aveva scritto Murger, e nel bel collage che all’inizio del terzo atto profila Mimì di petto a Musetta («possedeva il genio dell’eleganza [...] non aveva che una regola, il capriccio»), s’annunciano due strade che, portando entrambe alla femminilità, ovunque s’incontrano e ovunque divergono. Qualche mese dopo, a febbraio, l’arte sembra essere sconfitta dalla vita alla barriera d’Enfer. Marcello rifà l’insegna di un cabaret: il quadro che dipingeva all’inizio ora (per le solite ragioni di lunario) ha cambiato titolo. Annunciata da colpi di tosse, arriva Mimì: ha litigato con Rodolfo e non sa ancora che a Parigi, dai tempi di Violetta, si muore di tisi. Nascostasi Mimì, ecco Rodolfo, che spiega a Marcello i motivi del litigio: Mimì è una civetta, dice, e poi, prestamente pentendosi: è tanto malata, questa è la verità, e lui sente e sa di non poterle offrire giusto ricovero. Mimì si scopre, ma ha già scoperto, dalle parole di Rodolfo, di dover morire. Decide di tornarsene al «solitario nido» da dove uscì per il richiamo d’amore. Prega Rodolfo di consegnare al portiere le poche cose che lascia: lui potrà tenersi la cuffietta rosa per ricordo; l’addio è senza rancore, anzi è rinviato alla stagione dei fiori, nel mese più crudele ma in cui sembra di non essere soli, ad aprile ("Donde lieta uscì... Addio dolce svegliare"). Musetta e Marcello stanno in un’altra puntata del loro amore litigarello: ed è quartetto.

Atto quarto .
Tempo dopo, nella soffitta dell’inizio, Rodolfo e Marcello stanno ancora a voler credere di fare arte. Pensano alle loro due civette ("In un coupé... O Mimì, tu più non torni"): Mimì e Musetta stanno lontane (Mimì, pare, amoreggia con un viscontino), restano oggetti coi quali ricordarle, come souvenir o surrogati dell’amore che fu: per Rodolfo, la cuffietta rosa. Arrivano Schaunard e Colline e si fa finta di banchettare col poco che c’è; poi si fa finta di divertirsi, con danze e danze: minuetto, pavanella, fandango, quadriglia, dove Puccini cita ironicamente il repertorio classico; ma, mentre cita e fa parodia, improvvisamente l’orchestra si impenna in un accordo tragico: «C’è Mimì che mi segue e che sta male», dice Musetta entrando. Accolgono la poveretta che è tanto malata e che, abbandonato il viscontino, la sua ripicca alla gelosia, torna per morire accanto al suo geloso Rodolfo. Fa freddo: Musetta incarica Marcello di andare a vendere gli orecchini per comprare qualche cordiale e un manicotto contro il freddo, per chiamare un dottore; il grande Colline, tirando le fila del suo sistema filosofico, si vende il pastrano, la sua vecchia zimarra, e allo scopo esce con Schaunard ("Vecchia zimarra"). Mimì, atteggiando con la voce un’aria popolare (la forma metrica del testo è uno strambotto - "Sono andati? Fingevo di dormire") dice di aver finto di dormire per restare sola col suo Rodolfo: che qui lancia il più tragicamente straziato e appassionato dei suoi richiami d’amore, contrappasso al lirico abbandono di quell’altra volta soli in soffitta. Insieme si danno a rammemorare i giorni lieti di "Mi chiamano Mimì" e di "Che gelida manina". Mimì s’era allora subito accorta di tutto, della chiave nascosta, per esempio, ed era stata al gioco, ingenua ma non tanto. Tossisce. Tutti si accorgono di quel che sta per capitare, tranne Rodolfo, che non vuole cedere al destino. Sul manoscritto della partitura è il punto in cui Puccini, che sapeva quando far morire le donne fragili che creava, che sapeva come colpire i cuori per spillarne lacrime, ha disegnato il teschio con le due ossa incrociate sotto, come lo stendardo dei pirati, lui pirata del sentimento in musica. Sotto teschio e ossa, in atto di suprema consapevolezza teatrale e non meno supremo, ma provvisorio, cinismo, Puccini ha scritto «Mimì». In una lettera, commentando a ridosso della fine della stesura (10 novembre 1895, l’inizio era stato nel gennaio del ‘93), cedendo per una volta ai meccanismi del sentimento che dominava da maestro, almeno come le sue note, scrisse dell’ «effetto di avere visto morire una sua creatura». Non dalla ‘prima’ al Regio, diretta da Arturo Toscanini, ma dalla rappresentazione palermitana dell’8 aprile dello stesso 1896, il pubblico non s’è stancato di piangere: ed è un secolo.